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Seminario "A che punto è la questione Venezia" - intervento di EMILIANO TRIZIO

La polis espropriata

La messa in vendita di Venezia deve condurci a sviluppare una riflessione generale sulla pressione economica che viene oggi esercitata su ogni aspetto della vita personale e collettiva, e, in particolare, sugli elementi che ne hanno costituito l'orizzonte implicito, ma fondante, quali la città, l'accademia e il mondo della cultura in generale. L'impegno per Venezia è l'impegno per la centralità e l'autonomia della vita collettiva come sorgente di valori e di scelte consapevoli.

Esistono da molti anni numerose proposte articolate per affrontare la crisi profonda che affligge la città di Venezia, proposte che richiedono un attenta disanima alla luce della realtà sociale della città e, soprattutto, lo sviluppo di strategie realistiche e concrete per la loro attuazione. In questi brevi note non le prenderò in considerazione se non in forma molto generale, ma rifletterò invece sul significato più ampio che ha l’impegno per il futuro della nostra città. Il mio punto di partenza sarà fornito dalla condizione in cui mi è capitato di vivere come veneziano professionalmente espatriato da molti anni, ma profondamente legato al mio luogo di origine.

In quasi vent’anni di esperienze di studio e di lavoro all’estero nell’ambito del mondo accademico ho vissuto, come molti ricercatori della mia generazione, una costante oscillazione geografica che ha fatto sì che il mio mondo ambiente si componesse di due metà disgiunte, tenute assieme da un andirivieni più o meno frequente, e da un tessuto di relazioni affettive e professionali che le nuove tecnologie hanno reso per la prima volta possibile mantenere a dispetto delle distanze. Un mondo divaricato, appunto, ricucito in modo precario da internet e dai voli a basso prezzo, di cui un polo è cambiato molte volte a mano a mano che le opportunità professionali mi spingevano verso altre città e paesi, mentre l’altro è rimasto sempre il medesimo: Venezia. In questi anni ho osservato come la città si sia modificata radicalmente nel modo che tutti conosciamo: per quanto frequente, a ogni ritorno corrispondeva un’istantanea che mostrava una realtà già sensibilmente mutata. Nello stesso tempo il mio ambito lavorativo, l’università, si è anch’esso trasformato secondo uno schema coerente e riscontrabile nonostante la differenza dei vari contesti in cui mi venivo a trovare. Questa evoluzione parallela della città e dell’accademia, che connette un’esperienza locale e apparentemente circoscritta a una tendenza globale merita la nostra attenzione.

La polis e l’accademia sono due lasciti imparentati delle origine greche della nostra civiltà: senza addentrarsi nei complessi motivi storici in virtù dei quali l’una fornì le condizioni per lo nascita dell’altra, e senza ambire a caratterizzarne il complesso rapporto reciproco, si può affermare che ciò che accumuna il loro senso originario è il ruolo del tutto particolare che intrattengono con la dimensione progettuale dell’esistenza umana. Non è sufficiente ripetere che ciò che dovrebbero servire, il bene comune e i valori intellettuali rispettivamente, non possono mai trasformarsi in mezzo in vista di qualche altro fine; piuttosto occorre riconoscere che esse forniscono l’orizzonte implicito della decisione riguardante qualunque altro fine, nonché i mezzi per realizzarlo. In altri termini, la polis e l’accademia sono spazi della decisione che sottendono all’agire personale e collettivo e, come tali, ne costituiscono uno sfondo sempre a rischio di diventare opaco e di scivolare ai limiti della nostra consapevolezza. Dirò prima due parole sull’università per poi ritornare al tema della città e di Venezia in particolare, la quale se non costituisce una polis in senso classico, rappresenta un’articolazione autonoma del corpo politico più ampio a cui apparteniamo.

Che l’università dovesse interagire con il contesto economico in cui opera e che questo comportasse rischi di snaturamento lo si è sempre saputo, ma ben altra cosa è fare esperienza diretta della ridefinizione radicale di senso che il modello economico dominante nella nostra era le ha imposto nell’arco di pochi anni. L’università poteva ancora fino a qualche anno fa apparire protetta da uno stato di natura che la rendeva uno spazio almeno in parte autonomo rispetto alle dinamiche economiche in senso stretto, ma non è più così. Se si è poteva irridere Platone proclamando che il filosofo re della Repubblica aveva finito per diventare un semplice professore dell’Accademia, ora dobbiamo costatare che filosofi, scienziati e artisti operano in istituzioni che li considerano alla stregua di semplici risorse umane. Da re, a professore, a risorsa umana, neppure Esiodo avrebbe immaginato un metallo sufficientemente vile da associare all’ultima era dell’università. Il linguaggio dei quadri amministrativi dell’università è stato trasformato dall’alto in senso produttivistico e commerciale, e si è diffuso fino a infettare ogni livello dell’istituzione. Persino chi ha sempre osteggiato tale evoluzione fatica ormai a parlare dell’attività accademica senza fare ricorso ad esso. In un recente documento del ministero della pubblica istruzione del Regno Unito si dichiara senza ombra di vergogna che il fine dell’università consiste nel contribuire all’aumento della produttività della forza lavoro e, quindi, alla crescita del prodotto interno lordo del paese. Il quadro valutativo della qualità dell’insegnamento universitario introdotto di recente nello stesso paese, il famigerato TEF (Teaching Excellence Framework) assegna un ruolo determinante nel calcolo del punteggio finale da assegnare a dipartimenti e università al tasso d’impiego dei loro ex-studenti nel periodo seguente al conseguimento del diploma di laurea, nonché alla qualità dell’impiego. Non è difficile immaginare che qui “qualità” non significa, in ultima analisi, nient’altro che “redditività”. In altri termini, se gli studenti, dopo aver studiato per alcuni anni, per esempio, filosofia, anziché affrettarsi a cercare lavoro in una banca o iscriversi a un master professionalizzante, preferiscono darsi il tempo di chiarire i loro scopi, di decidersi sulla propria esistenza, avendo prima di tutto in vista la propria realizzazione umana, e nel frattempo si dedicano ad occupazioni provvisorie o scelgono di esplorare il mondo come la loro giovinezza suggerisce e permette, allora i loro professori vengono bollati come cattivi insegnanti di filosofia. L’università, in tal caso, può far chiudere i battenti ai corsi di laurea che, non ottenendo un punteggio elevato, rischiano di compromettere il suo risultato complessivo. Si sancisce così il principio che un dipartimento ha senso di esistere soltanto se gli insegnamenti che impartisce garantiscono a breve o medio termine un ritorno economico sufficiente a chi ne ha beneficiato. Certo, si tratta di tendenze assai più accentuate in America e nel Regno Unito, ma sappiamo bene che il nostro paese, al solito, farà di tutto per recepirle in modo acritico e sgangherato, come dimostrano i molti documenti ministeriali infarciti di anglicismi da strapaese che circolano nelle nostre università.

Mentre il mondo anglo-americano mi appariva anticipare la tendenza globale all’esproprio dello spazio accademico della decisione da parte degli interessi economici, la piccola Venezia rovesciava in modo paradossale i termini del centro e della periferia stagliandosi come un fenomeno d’avanguardia nel progressivo snaturamento dell’altro e più fondamentale spazio della decisione, la città. Un’intera città storica trasformata in risorsa economica, i cui abitanti non possono neppure fungere da risorse umane, perché resi superflui da pendolari al servizio di imprenditori operanti all’esterno di essa; una classe dirigente che aliena il tessuto urbano che dovrebbe proteggere e servire, che punta al dissolvimento del senso di cittadinanza come orizzonte implicito, e quindi inviolabile, dell’agire collettivo.

Illuminandosi mutualmente, questi due fenomeni configurano il decentramento del cittadino attivo e pensante nel mondo di oggi. Prospettano il rischio che non vi sia più un luogo in cui si possa esercitare la propria autonomia, il proprio diritto a decidersi individualmente e collettivamente. Soprattutto, rivelano il motore segreto che sta alla radice di entrambe i processi, ossia la trasformazione di ogni bene culturale e quindi di ogni eredità immateriale in risorsa economica. Ciò che accomuna una città come Venezia e i luoghi deputati allo studio e alla ricerca, quali le università, è che sono ambiti attraversati da una storicità in cui la nostra vita s’inscrive come un momento passeggiero. Sono mondi a cui apparteniamo, che continueranno ad esistere anche dopo di noi e che costituiscono la matrice per definire i nostri fini, e quindi né un fine tra gli altri, né ancor meno un mezzo che si possa ridirigere verso altri fini. Sono mondi dotati di un alterità irriducibile alla sfera della prassi quotidiana. Né si tratta di qualcosa che ci appartiene nel senso proprietario del termine. Sono queste forme di trascendenza storica e culturale, di eredità carica d’alterità a non poter essere messe al servizio dell’economia di mercato. In particolare, la città è qualcosa a cui si appartiene, la città non ci appartiene come una proprietà o un capitale. Per questo essa costituisce lo sfondo implicito delle nostre scelte e non un mezzo o una risorsa da investire.

Venezia diventa così il simbolo di una tendenza fondamentale di questa epoca e, pertanto, il luogo di un impegno altamente politico e intellettuale.

Nel suo splendido libro, Se Venezia muore, Salvatore Settis ha mostrato come il caso di Venezia abbia un valore esemplare, in primo luogo per la totalità dei centri storici in Italia e altrove, e ha spiegato in dettaglio come il tessuto urbano e la sua eredità storica siano inseparabili dalla forma di vita che vi si sviluppa, come tutti i centri storici ospitino una forma di aggregazione sociale che deve essere difesa e contrapposta all’idea di quella che si potrebbe chiamare la città-strumento, o la città ridotta al suo semplice valore d’uso, priva di storia, di consapevolezza e di partecipazione attiva. Tenendo a mente le sue considerazioni e aggiungendo che la violazione degli spazi urbani deve essere vista alla luce del fenomeno ancora più generale che ho cercato di tratteggiare, e che riguarda tutte le articolazioni implicite e tutte le eredità/alterità che stanno a fondamento della vita collettiva, vorrei concludere sottolineando che la questione Venezia, proprio perché incarna il destino di tutte le città storiche, se è una questione globale, deve prima di tutto diventare una priorità politica di carattere nazionale.

Il nostro Paese deve riconoscere il valore delle sue storiche articolazioni urbane. Il destino dei centri storici più importanti va posto come questione urgente a livello nazionale, il solo, al momento, in cui si possano adottare quadri giuridici dettagliati volti a salvarli dallo spopolamento. L’Italia non deve lasciare che uno dei suoi beni più grandi, il riprodursi di forme di aggregazione sociale e di partecipazione attiva che stanno diventando impossibili e inimmaginabili per la maggior parte degli abitanti della Terra, sia perso per sempre. La cultura italiana è stata fatta nelle sue città, dalle sue città. Si deve riconoscere che tali spazi, e Venezia prima di tutti, in virtù della loro forza attrattiva e del loro prestigio culturale possono diventare una sorta di frontiera illustre del Paese. La frontiera è prossima al centro soltanto nelle città di mare: oggi ogni città storica è un porto di mare, la cui vocazione cosmopolita va capita e valorizzata. Il nostro Paese non ha soltanto bisogno di conservare il bene della vita urbana che ha costruito nell’arco di secoli, deve capire che può prolungarla nel presente come la forma della sua apertura al mondo, come la parte di sé più vitale e ricettiva. La città storica come porto culturale può essere lo spazio delle decisioni più adatto alla nostra epoca, uno spazio proiettato verso il mondo, ma saldamente nelle mani di chi ha deciso di abitarvi e di legare a esso il proprio destino.