[field_image_1-alt], [field_image_1-alt]

Seminario "A che punto è la questione Venezia" - intervento di FRANCO AVICOLLI

La storia, la bellezza, la coerenza e la retorica.

Affermare problematicamente l’esistenza di una “questione Venezia” con  parametri che definiscono la qualità della vita e il benessere sulla base del profitto, è un compito tutt’altro che pacifico, visto che Venezia è una grande protagonista del turismo internazionale. Di buona salute gode anche la Biennale, emblema del ruolo artistico e culturale di Venezia nel mondo e straordinario motore della sua vita che, grazie al pubblico numeroso che affolla le attività artistiche, architettoniche, cinematografiche, musicali, teatrali e assimilate, collabora non solo al successo della sua immagine, ma anche a quello dell’industria alberghiera, della ristorazione e turistica con ottimi effetti sull’occupazione. E l’afflusso di popolazione più o meno spendacciona è tale che i benefici del turismo si estendono a macchia d’olio alla terraferma con un indotto benefico anche per l’edilizia, come testimoniano i molti alberghi in costruzione presso la stazione di Mestre.

 Dal punto di vista del profitto, Venezia è modello di una vera e propria macchina per fare soldi. E allora, qual è la “questione Venezia”? Il sindaco Brugnaro, imprenditore di un successo che, come si sa, stimola emulazione, sostiene con adeguati provvedimenti  – e non è certo il primo da qualche decennio – il destino turistico della città favorendo la trasformazione di edifici pubblici in potenziali alberghi o comunque in possibili attività turistiche. E’ una prospettiva mai contrastata dalla politica  che le università e le istituzioni culturali, con l’eccezione della Fondazione Gramsci al tempo di Umberto Curi,  hanno sempre considerato con distacco, se non addirittura con sdegno, e senza indicare altri percorsi o suggerire interventi, dare contenuti e strumenti all’essere Venezia. E non ci sono segnali di qualche cambio di rotta.  Certo, c’è la consapevolezza del disagio provocato dalla massa turistica, dalla trasformazione profonda che questa massa produce sull’offerta commerciale della città, sul  sistema di relazioni e sulle attività artigianali necessarie per le sue morfologie e le sue architetture. Ma, altrettanto, c’è la convinzione che l’attività turistica abbia effetti talmente benefici su Venezia, sul Veneto e sull’Italia che sembrerebbe masochistico non favorirla. Ed è quello che si fa da qualche decennio a destra e a sinistra ritenendo che l’attività turistica sia una pratica del tempo libero a carattere ludico, che non abbia a che vedere con la formazione, né con i valori delle civiltà e del loro  ruolo coesivo di riconoscimento.

E’ pur vero che qua e là ci sono gruppi di resistenza che organizzano la protesta contro  le grandi navi che mettono in pericolo un ambiente fragile o stigmatizzano la vendita ai privati di immobili pubblici generalmente destinati ad aumentare l’esodo e a rimpinguare il già sostanzioso patrimonio destinato all’attività turistica. Va detto che la protesta è sempre garbata come si conviene ad una città nobile, ed è perdente perché rappresenta una cultura che difende un valore calpestato senza diventare una forza che trascina e ciò, purtroppo, sembrerebbe indicare che la situazione veneziana è sostanzialmente tranquilla e che, se è necessario, ci sono i tornelli.   

Ma allora quale potrebbe mai essere la “questione Venezia”? Ebbene, essa è così silenziosa da essere coperta dal rumore del successo, perché la “questione Venezia”  è di carattere ontologico e riguarda l’esistenza di Venezia come città e come  valore, come qualità del mondo.  Il fatto drammatico che si consuma quotidianamente, è che giorno dopo giorno la bellezza, l’arte e la città in sé che sono le ragioni riconosciute dell’interesse verso Venezia,  trovano sempre meno posto nel progetto di città. Che è come dire che Venezia è una forza che attrae per essere depositaria di valori di riferimento come  l’arte, la bellezza, la città in quanto tale,  che però sono un dato che non richiede impegni speciali, non ha implicazioni sociali, culturali e gestionali, per cui non è necessario un progetto che, d’altra parte, è già nelle cose.  Venezia è cultura in sé, si sostiene, dimenticando che la cultura è proposta e confondendo la città che vive nel tempo, che è fatta di persone, di competenze, di appartenenze, di professionalità, di creatività, di scuole, di orgoglio, di vita quotidiana, di progetti e attività che a Venezia dovrebbero avere a che fare con la bellezza e l’arte,  con  un canovaccio  utile per rappresentazioni a pagamento.

Credo che il problema non sia solo veneziano, ma di politica culturale dell’Italia che è meta di turismo internazionale, per essere rappresentazione di un valore storico e culturale che la classe dirigente considera solo per il verso recettivo e non per quello propositivo. Il che pare talmente paradossale da provocare la domanda ingenua: ma in quale mondo viviamo? Perché Venezia pone il problema del senso del valore in cui le civiltà si riconoscono, un tema che non riguarda soltanto la città lagunare, ma il mondo.

Per cercare di dare una risposta alla domanda, mi pare utile dare posto alla sensazione del disagio che ne deriva, di vivere in una atmosfera rarefatta dove domina il presente infinito bloccato dalle ragioni urgenti della competizione in cui contano  l’azione e il risultato e poco o nulla tutto il resto. Il nostro è il tempo della conflittualità che riproduce se stessa, senza origini,  né storia.  E il conflitto appare  come difesa legittima delle posizioni acquisite da circa un miliardo e mezzo di persone variamente privilegiate e distribuite in un mondo dove più di cinque miliardi di donne, bambini e uomini vivono di quello che avanza all’umanità del benessere e sostanzialmente senza arte, né parte.

 Oltre ogni possibile considerazione, si tratta di una situazione che esce dalla storia alla quale pare che il mondo del privilegio non sia interessato a chiedere lumi. Ma su che cosa può mantenersi un tale “equilibrio”? I metodi sono sempre gli stessi e, su tutti, l’antico divide et impera opportunamente gestito con una informazione spregiudicata, parziale, e spesso  falsata che mira a creare il “nemico”, il portatore di pericoli, l’altro.  

Il problema è complesso e non credo che esistano soluzioni semplici dati gli interessi in gioco, le convinzioni e le paure sedimentate nel tempo, luoghi comuni difficili da smontare.

Credo perciò che bisognerebbe tentare il recupero del rapporto con  la storia e il territorio e  tracciare una specie di biotopo culturale,  rientrare nella storia e  ridefinire i termini della convivenza e che la “questione Venezia” vada collocata in un contesto che si richiama al ruolo e al senso dell’uomo nell’epoca della tecnica e ai meccanismi della convivenza.  

E ciò, nella convinzione che non esiste un unico luogo, né un unico modo per risolvere il conflitto diffuso che è parte integrante dei comportamenti individuali, collettivi e istituzionali e perché il problema del vivere assieme richiede una partecipazione cosciente delle forme di soggettività individuale e di gruppo,  includendo quella istituzionale.

La condizione di Venezia come esito di un percorso di civiltà e di convivenza, è un valore del presente,  un privilegio fatto di certezze che riportano alla qualità della vita e al sistema  sul quale le società trovano coesione.

L’identità è una dimensione consegnata dalla storia, dalle abitudini, dalle consuetudini, ma poiché è una categoria di riferimento da accettare, condividere o anche negare, essa non può che essere dinamica e trasformarsi in un progetto, un valore che Venezia rappresenta in alto grado e con una specificità in cui è possibile riconoscere,  proprio per essere un riferimento, un modo di essere dell’uomo collettivo nella specificità di città costruita nell’acqua e con caratteristiche e morfologie  tali da configurarla oggi come città dell’arte e della bellezza,  categorie dalle molteplici sfumature in cui il mondo si riconosce.

Il senso di Venezia come luogo della bellezza e dell’arte è l’esito di una storia di corrispondenze fra  interessi, volontà e modalità di rappresentazione, è l’effetto di un sistema di relazioni  all’interno del quale si possono introdurre usi che conducono  a risultati opposti a quelli delle premesse, perché c’è una proprietà delle cose che richiede corrispondenza e coerenza per non diventare retorica che non è solo una modalità del discorso,  ma anche un percorso per realizzare un pericoloso svuotamento della qualità della cosa di cui si parla.

E se Venezia si assumesse il ruolo attivo di città dell’arte e della bellezza per sé e per il mondo? Quali sarebbero gli effetti per Venezia e per il mondo dell’assunzione di tale ruolo? E’ possibile  un disegno, per Venezia, in cui la città sia contemporaneamente protagonista di un progetto e oggetto del suo contenuto?

Le città hanno un senso, corrispondono ad aspirazioni, sono un’idea del mondo e un progetto di vita. Venezia, come tutte le città storiche, è una forma realizzata del rapporto tra uomo e città e in quanto tale è diventata un valore del presente di cui esprime un sistema di riconoscimento. In un tempo come l’attuale,  Venezia  è un valore in sé che però è misurato con parametri di altre categorie per emergere infine come un prodotto dal valore importato o anche prestato, un uso che si configura in una versione retorica, celebrativa, rituale che toglie senso e ruolo all’arte, alla bellezza e alla città, che potrebbero trovare posto solo in un progetto corrispondente al significato storico e metaforico che le viene riconosciuto. Ed è questo il pericolo che corre Venezia, di essere parte costitutiva, corpo di ciò che il mondo chiama bellezza, di appartenere ad un immaginario collettivo che la rende attraente per essere la rappresentazione visiva dell’arte e la bellezza che però non producono più l’umanità, nel senso più ampio del termine, che di quei valori è fondamento. Come può una città costruita con materiali non autoctoni e persone che a quei materiali hanno dato forme finalizzate ed espressività, essere rappresentazione dell’arte e della bellezza sostituendo i soggetti che permettono a quella condizione di essere vitale, con un’attività dilagante circoscritta all’esercizio della ristorazione, dell’accoglienza e della vendita di chincaglierie senza identità ?  

In tale assenza di progetto, anche la Biennale, una struttura culturale straordinaria e di importanza mondiale, si trova, purtroppo, nella condizione di  sostituirsi ad una Venezia che non è né humus, né laboratorio di arti  che trovano posto ai Giardini ed emblematicamente, presso quell’Arsenale che fu il cuore e la mente della Serenissima. Ed è conseguente che in una situazione di vuoto, la Biennale finisca per favorire incolpevolmente il grande mercato della rendita che svuota Venezia di abitanti, di artigianato e della linfa artistica e culturale fondamentali per un ambiente come quello veneziano. Cosicché, mentre la Biennale svolge un grande e meritorio ruolo culturale a Venezia, in Italia e nel mondo, la città si va strutturando sulla cultura della rendita che fiorisce sulla bellezza e l’arte  che sono valori dell’essere Venezia, e del mondo che in essi si riconosce.

La “questione Venezia”, è tutta qui, allora, nella possibilità e capacità che essa possa essere vitalmente protagonista di valori come l’arte e la bellezza essendone città, memoria e nello stesso tempo progetto.

Credo che il destino di Venezia vada ridefinito proprio nel contesto di città che si assume per sé e per il mondo le implicazioni dell’arte e della bellezza che rappresenta.  Penso perciò ad una città che si pensi con la laguna e le sue isole, alla realizzazione di un contesto in cui le culture del mondo possano e vogliano esprimere le loro idee in materia di arte e di bellezza riconoscendo a Venezia il ruolo di città di quei valori, fra l’altro alternativi al conflitto. In tale auspicabile prospettiva di Venezia nella modernità, l’Arsenale dovrebbe svolgere il compito di Alta Scuola della memoria e dello studio dei materiali per la vita nell’acqua e riproporre in chiave moderna l’attività e l’ambiente artigianale imprescindibile per una città che per essere ha bisogno più di artigiani che di botteghe e bancarelle.