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Seminario "A che punto è la questione Venezia" - intervento di ANDREA TEGLIO

Mi chiamo Andrea Teglio, sono docente di politica economica presso l’Università Ca’ Foscari e sono anche un nuovo veneziano, nel senso che sono arrivato da poco in città. Ho quindi uno sguardo inesperto sui problemi di Venezia. Non conosco in profondità la storia dei problemi della città e posso quindi dare solo un contributo ‘ingenuo’, di chi si confronta con questi problemi per la prima volta.

Ciò di cui volevo parlare oggi è il rapporto tra il linguaggio economico e gli altri linguaggi che si usano frequentemente per descrivere le problematiche che affliggono Venezia. Nel preparare questo intervento mi è venuta in aiuto una conferenza che si è tenuta venerdì scorso presso il dipartimento di economia di Ca’ Foscari su una delle questioni principali che riguardano la città, ovvero quella del turismo. Durante questa conferenza è stato presentato un lavoro sul turismo a Venezia che è stato cominciato trent’anni fa da Paolo Costa, che voi conoscete certamente meglio di me, ed Elio Canestrelli. Si tratta di un modello che ha lo scopo di capire quale è la capacità di carico di Venezia, nel senso di quanti turisti può ospitare. Faccio un breve inciso, io sempre nella mia ingenuità, mi sarei aspettato di trovare una task force o comunque un sistema integrato di dipartimenti, di studi, che si occupasse dei problemi di Venezia (che sono anche complessi da affrontare) e invece sono rimasto abbastanza stupito nel constatare che attualmente non ci sono realtà molto consolidate che si occupano, all’interno di Ca’ Foscari, dei problemi della città. Quindi devo dire che sono rimasto un po’ sorpreso. Tornando al modello, vorrei riassumerlo brevemente per farvi capire quale è il linguaggio con cui gli economisti si avvicinano ai problemi di Venezia. Si tratta di uno studio che cerca di capire come si deve articolare il turismo a Venezia. Di fatto è un modello che prende in considerazione varie tipologie di turisti (che sono poi quelle classiche che visitano a Venezia: i turisti che vanno in albergo, quelli che vanno nei B&B e quelli che pernottano fuori Venezia e vengono qui in giornata). Ad ognuna di queste tipologie di turisti viene assegnata una spesa media, che viene stimata a secondo delle statistiche a disposizione. Si compone quindi una funzione di profitto, che riflette quanto Venezia può incassare dalla spesa dei vari turisti (il turista dell’albergo spenderà un po’ di più, quello giornaliero un po’ meno) e si introducono dei vincoli sul numero di presenze turistiche. I vincoli possono essere di varia natura, dal numero di parcheggi disponibili a Venezia, che limitano il numero di potenziali visitatori, alla disponibilità di servizio di trasporto pubblico (treni, autobus, barche), al numero di alberghi e di altri tipi di servizi di accoglienza. Poi ci sono anche dei limiti fisici che possono essere rappresentati simbolicamente dalla capienza di Piazza San Marco, che ogni turista si suppone debba visitare.

Tutti questi elementi si danno pasto al modello (non voglio essere troppo tecnico) e attraverso uno strumento computazionale, che si chiama programmazione lineare, si ottimizzano gli incassi totali. Dati i vincoli, si calcola quanti turisti per ogni tipologia dovrebbero visitare Venezia per avere il maggiore incasso possibile.

La mia semplice descrizione può dare un’idea di come gli economisti inquadrano il problema di Venezia. Senza essere troppo feroci con gli economisti, immagino che la vostra sensazione sarà: “questo è un modo un po’ arido per trattare i problemi di Venezia, e non esauriente, nel senso che esistono problemi molto più complessi e articolati rispetto all’ottimizzazione di una funzione profitto della città”. Questa sensazione è anche mia, però che cosa emerge nel confrontare il linguaggio che usano gli economisti e altri linguaggi, più comunemente usati per parlare dei problemi della città? Non è vero che gli economisti non abbiano la percezione che i problemi di Venezia siano più vasti e più articolati rispetto all’ottimizzazione degli incassi di Venezia; il problema è che il discorso economico deve rimanere su un piano così detto “rigoroso” e secondo me questa è una problematica più allargata per cui ci dovremmo chiedere quali sono le relazioni tra il linguaggio scientifico, di cui il linguaggio economico è un rappresentante (anche se sappiano che l’economia non è una scienza) e gli altri tipi di linguaggi che sono emersi nella giornata di oggi. Il linguaggio scientifico deve avere quindi un certo rigore, deve basarsi su dati, ipotesi affidabili e giungere a conclusioni non dico inequivocabili, perché non è possibile, però sulle quali possa esistere un certo consenso. E questo rigore determina il fatto che si continui a parlare dell’ottimizzazione dei profitti turistici di Venezia; perché è difficile allargare il discorso è rimanere in un ambito, come dire, scientifico. Quindi quale è il problema? Il problema è capire come si può mettere in relazione un linguaggio “scientifico” con gli altri tipi di linguaggi, che sono stati usati anche oggi da chi mi ha preceduto, e che possono avere come limite una certa vaghezza, o una certa emotività. Io li chiamerei forse linguaggi ideologici, o utopistici, o immaginativi in cui ognuno incarna la propria idea, la propria sensazione, la propria emozione. Mi sono un po’ stupito, ascoltando i vostri interventi, quando si parlava di condivisione, cioè quando si diceva: “beh l’analisi è chiara, più o meno l’abbiamo condivisa…”. In realtà io credo che questa sia una sensazione limitata ad una certa cerchia di persone che sono interessate a questo tipo di problemi, e che sia un po’ illusorio immaginare questo tipo di condivisione anche su scala più allargata. Quindi lo scopo di un’interazione tra linguaggio economico e altri linguaggi può essere quella di allargare il discorso e metterlo su basi, non mi piace questa parola, più oggettive e quindi più largamente condivisibili. Anche Alberto diceva che manca un racconto condiviso, ma un racconto condiviso si può fare anche attraverso l’allargamento del discorso, che può utilizzare degli strumenti che siano più oggettivi da un certo punto di vista.

Possiamo chiederci se le scienze economiche hanno fatto tutto per occuparsi in maniera appropriata dei problemi di Venezia? Non credo che sia questo il caso. Penso che le scienze economiche possano fare di più usando il loro linguaggio caratteristico. In maniera molto semplificata il linguaggio economico parla sostanzialmente di Costi, Benefici e Utilità. Il punto è quello di entrare in relazione con gli altri linguaggi per capire quali sono i costi e quali sono le utilità, perché le utilità non sono solo puramente monetarie. Nella vita noi godiamo di tante cose, non solo dei flussi di cassa. E quindi attraverso il dialogo fra diversi linguaggi secondo me si riesce, si può arrivare a operare una sintesi adeguata, perché in fondo l’esercizio dei costi, dei benefici e delle utilità può essere un valido esercizio. Un esercizio di chiarezza, perché purtroppo viviamo in una condizione di mancanza di chiarezza, e nella mancanza di chiarezza l’inerzia tende ad essere una forza potente che impedisce i cambiamenti. Io vi faccio un esempio per spiegare questo concetto. In economia adesso si parla molto di crescita; crescita è la parola d’ordine per tutti, però quando si parla di crescita in economia si usa una parola sostanzialmente poco significativa, a mio avviso, perché è una parola vaga, bipartisan. Perché crescere fa piacere a tutti, fa piacere al ricco, al povero, al contadino, fa piacere al cittadino, fa piacere all’estrema destra e all’estrema sinistra, cioè quando parliamo di crescita non parliamo di nulla sostanzialmente, parliamo di un’utopia, ma non emergono i contrasti importanti, non emergono i conflitti. In questo senso, credo che l’economia purtroppo si sia posta su un piano troppo generico, che favorisce un certo tipo di inerzia nelle cose più concrete.

Come può quindi il linguaggio economico occuparsi del problema di Venezia? Secondo me si deve sempre porre il problema dei costi, dei benefici e delle utilità, ma individuando delle categorie di persone, o di enti più astratti come la laguna e altri, e capire quali sono i benefici di certe scelte, i costi di certe scelte e soprattutto come bisogna costruire le utilità di tutti soggetti in gioco. In questo senso, secondo me, potrebbero emergere dei significati interessanti, perché alla fine la democrazia è il posto dove si devono risolvere i conflitti, e quindi il linguaggio economico, nei termini classici di Costi, Benefici e Utilità, può rendersi utile per fare chiarezza sui possibili scenari futuri. Per esempio studiando a chi questi scenari convengono, a che tipo di strategia ubbidiscono, e chi ne trae realmente utilità. Bisognerebbe forse costruire un discorso rigoroso, attraverso opportuni modelli, per far emergere questi temi con sufficiente chiarezza. Il discorso economico/scientifico in realtà ha proprio lo scopo di chiarire, di gettare luce sulle situazioni per cercare di inquadrarle meglio e di permettere di fare delle scelte che magari non favoriscono tutte le parti in causa, ma che sono compromessi che mediano tra i conflitti che sono sempre presenti, presentissimi, e lo vediamo a Venezia dove esistono chiaramente interessi conflittuali enormi. Questa è un po’ la questione, cioè quella di cercare, secondo me, di allargare ad una platea più vasta il discorso su Venezia, attraverso il dialogo fra il linguaggio economico e un linguaggio più immaginativo, più creativo, se vogliamo, che è quello che è emerso fino ad ora, ma che tutto sommato è anche attaccabile, nel senso che ci sono, come dicevo, molti interessi diversi, e che non tutti possono condividere queste analisi, perché dotate di troppa soggettività. Quando, ecco, parlavate di “destino del mondo” il discorso inevitabilmente tende ad uscire dai margini; e allora, questo strabordare del discorso, che è certamente interessante su un piano dialettico, su un piano del confronto e della speculazione, rischia da un certo punto di vista di essere una specie di boomerang sul piano del confronto sui temi puntuali. Concordo sul fatto che si dovrebbe cercare una fusione, una contaminazione positiva di linguaggi, fra quello evocativo, teatrale, filosofico o più immaginativo, e altri tipi di linguaggi più rigorosi, che però possono aiutare a sgombrare il campo dagli equivoci, dalle inesattezze e dai concetti vaghi che sono sempre utili a chi non vuole cambiare le cose. In realtà, secondo me, se fatta in un certo modo l’indagine scientifica, per quanto limitata nella capacità di dare significati, può sempre aiutare a chiarire quale è lo status quo, quale è la situazione attuale e quindi aiutare poi a prendere le decisioni sul come, eventualmente, provare a cambiarla.