Intervento di  Franco Avicolli

La città e la storia

Con il desiderio di rispondere a questioni circostanziali ed esistenziali, mi domando spesso che cosa sia mai la città e tutte le risposte convergono inevitabilmente verso lo stesso punto: la città è il luogo dove l’uomo costruisce il proprio destino. E per averne conferma, mi domando in negativo ciò che essa  non è,  trovando  la risposta silente del vuoto, dell’assenza  perché si può pensare alla città solo come  proposta di vita, di luogo della definizione, delle scelte e delle speranze.

Jean Gaudemet, storico del diritto, affermava  che “la rovina o la decadenza dell’impero /di Roma/ non significano...nulla” a fronte del diritto e dei sistemi istituzionali lasciati che sono modelli attivi di riferimento. Nel suo grande viaggio nel Mediterraneo, Fernand Braudel riprende l’affermazione del suo conterraneo per concludere che, caduta Roma, “l’Occidente sarà impregnato della sua sopravvivenza”, mettendo con ciò in evidenza il valore della città come indicazione di percorso, conoscenza e patrimonio identitario,  nucleo di pensiero e di scelte su cui si costruisce la coesione sociale e il suo progetto.

La città è un modello di vita, è il sistema che gli uomini scelgono per stare assieme, è consistenza fisica fatta di edifici, di strade, di luoghi dove si esercitano attività, si vive o ci si riunisce, ed è anche il senso visibile, formale delle modalità in cui le funzioni vengono realizzate. Il Palazzo ducale di Venezia aperto alla piazza e il Palazzo Vecchio di Firenze che ricorda nella struttura una fortezza, sono ambedue edifici dove si esercita il potere e un modello di quell’esercizio. Le città sono storia e metafora, ciò che sono e ciò che fanno vedere di essere. E comunque sono un dato della storia, soprattutto per una realtà come la nostra che ha il privilegio – una vera e propria rendita di posizione – di averla. Perché le categorie dell’identità che hanno un tempo lungo di gestazione e di vita sono rivelazioni di potenzialità e di condizioni, collanti sociali, possibilità di collocarsi coscientemente in un sistema di relazioni dove pensiero convergente e pensiero divergente possono convivere ed essere progetto.

 La bellezza è appunto una di queste categorie ed è il modo con cui si definisce il valore di ciò che attrae, stimola, appaga e suscita desiderio. Per dirla alla maniera di Vico, è la verità che sta nella cosa, ciò che in sostanza suggerisce  alla vita una ragione oltre il finito, si tratti di spazio o di tempo.

La bellezza è, variamente, la qualità dell’architettura, della pittura, della musica, delle arti, del vivere e, fra le molte altre cose,  dell’essere una città come Venezia che quelle qualità, come altre città,  ha riunito nel tempo avendone un riconoscimento, un riscontro. Ognuna di esse è una modalità dell’essere uomo, è come il bosone di Higgs, l’entità che permette e ha permesso agli uomini di stare assieme, costruire comunità di vita, costruire sistemi di relazioni con valori di riferimento e di riconoscimento con cui costruire progetti  e destini collettivi, polivalenti e con visioni e interessi differenti. Ovviamente non si tratta di valori esclusivi perché mi è chiara l’importanza che hanno gli interessi come fattore coesivo e nella costruzione delle società. Ma mi è altrettanto chiaro che gli interessi sono come il denaro, che come si sa,  non olet. Sono dei dati senza volto che appartengono alla banalità del quotidiano e che hanno bisogno essi stessi di vedersi oltre i limiti del tempo e dello spazio. Anche essi hanno bisogno di una maschera, insomma, devono essere una metafora, un’allegoria, un senso che li arricchisca, che trasfiguri l’evidenza brutale che li contraddistingue come potenzialità conflittive  basate su relazioni di forza.

La metafora è una maschera che nasconde e rivela nello stesso tempo ciò che c’è e anche ciò che è assente, il vuoto.

E’ una dimensione che la letteratura gestisce con grande sapienza raccontando il pensiero e le modalità con le quali gli uomini vivono nelle loro città  come accade per  Macondo, la città di Cent’anni di solitudine che dell’America Latina è un paradigma, secondo alcuni, o una metafora, secondo altri. Nell’uno e nell’altro caso si tratta di un percorso che colloca  cose realmente accadute fuori contesto: i Buendía che fondano con i seguaci Macondo, si muovono come Colombo verso occidente e fondano la città senza sapere dove effettivamente si trovino; Macondo non genera il progresso che difatti viene da fuori, portato dai gitani e da Melquíades; la stessa “Remedio la bella”  sale verso il cielo ricordando altre ascensioni. Sono fatti  che sembrerebbero appartenere ad un’atmosfera “magica”, che nella realtà è però drammatica perché vera. Macondo è perciò anche metafora di ciò che manca, che non c’è che spesso è visione, è assenza di storia e autonomia, cioè di senso di sé e progetto, di possibilità di gestire un destino proprio. Come accade con Lavina di Llano en llamas  o con Comala Pedro Páramo del messicano Juan Rulfo che hanno la condizione drammatica di essere luoghi senza tempo dove impera la ripetizione e l’immutabilità dei gesti e dei rapporti. Sono metafore di un mondo vero che dall’esterno sembra inverosimile. E c’è il caso, infine di Pietroburgo, (Pietrogrado fra il 1914 e il 1925 e da qualche tempo assurto alla santità con il nome antico), che la letteratura russa ha odiato ritenendola origine del male, una specie di cancro che pervade il corpo della Russia e la rende altro, come accade per Akaki Akakevic che a Pietroburgo perde la dimensione di uomo per diventare un impiegatuccio di una città che lo usa.

 Sono metafore e, in quanto tali, hanno la particolare condizione di essere immutabili, senso di qualche entità, come la città che può proporre la propria metafora, senza che questa possa a sua volta creare la città. E quando ciò avviene si cade nella parodia e nella retorica, nell’uso fine a se stesso che consuma. E’ quello che sta accadendo con Venezia che però continua ad esistere nella storia avendo il grave problema di entrare nella modernità, nel tempo attuale per essere progetto, storia e conferma della metafora.

Purtroppo, la metafora contemporanea di Venezia è la Legge Speciale, una vera e propria maschera congegnata con un eccellente dispositivo che funziona nell’ineluttabilità della decadenza e  del degrado, che assume il dato metaforico della bellezza come valore messo in pericolo che richiede perciò  un senso di  responsabilità per contrastare o allontanare nel tempo qualcosa che potrebbe avvenire. Nella realtà risulta che, almeno per il momento, si tratta dell’uso retorico di un valore per fare profitto. La LS è quindi la metafora del profitto, il fine assoluto del nostro tempo che trova a Venezia una versione possibile nel valore della bellezza.

La debolezza della  LS si basa su premesse scontate, ovvie, direi, perché l’ovvietà svuota di senso il valore che si intende salvare; il quale è tutt’altro che ovvio giacché la sua qualità è attiva per essere, come Venezia,  un riferimento individuale e collettivo con delle valenze contestuali definite, un fattore di chiarezza e di riconoscimento, uno stimolo ad agire.  Ebbene, se un valore è ovvio, significa semplicemente che non è più un valore. 

 Nelle sue varie versioni, la LS afferma che “La salvaguardia di Venezia e della sua laguna è  dichiarata obiettivo di preminente interesse nazionale”, ma senza chiarire il perché. Ossia – e mi pare una cosa straordinaria di per sé -  tutti gli italiani riconoscono a Venezia una qualità tale da meritare una Legge Speciale, la quale però, guarda caso, non si preoccupa di dire perché Venezia è speciale. Ebbene,  credo che questo dato tutt’altro che ovvio, debba essere invece, e di per sé,  una definizione del valore di Venezia come città che rappresenta l’identità collettiva degli italiani in quanto  modello dell’abitare nell’acqua. Può essere mai considerato ovvio un fatto così straordinario? E così ovvio da non ritenere opportuna una qualche spiegazione? Ma come, in questo paese di individualismi esasperati ed escludenti, c’è la città di Venezia che è un valore in cui tutti gli italiani possono riconoscersi e non si dice loro il perché,  tralascia il dato definitorio e chiarificante come se fosse il valore di Venezia fosse un’ovvietà?  Ma è possibile che a nessuno venga il dubbio che  sia proprio l’ovvietà del perché, ovvero il vuoto progettuale la ragione del declino segnalato dalla legge e forse anche dell’Italia?

In quanto metafora della Venezia contemporanea, la LS è la madre del MOSE che bisogna collocare nel contesto di una cultura che non ricerca più nella propria condizione gli strumenti per essere una proposta di vita e che ricorre perciò al contributo esterno, che sostanzialmente  è la sostituzione del valore in sé della cosa, con il valore denaro vincente. Non faccio queste considerazioni per una qualche finalità moraleggiante. Siamo in un tempo dove la salvezza del bene culturale che spesso è modalità della bellezza, viene affidata al messaggio pubblicitario che conferma l’eterno con la forza dell’effimero, un ossimoro che può resistere letterariamente, ma non come riferimento di valore. Non porta da nessuna parte la condanna del profitto, ma la verità drammatica è che non disponiamo di un sistema di pensiero alternativo alla società che funziona sullo stimolo del profitto e credo che sia  questo il vero dramma della cultura umanistica che riconosce forza alla bellezza .

Venezia è una concezione del mondo e, parafrasando Braudel,  bisognerebbe agire per impregnare il mondo della sua sopravvivenza,  cioè che il mondo si sentisse portatore del suo valore culturale. 

La condizione  di Venezia quale città speciale  sta tutta nella sua condizione di città costruita nell’acqua e di essere perciò la meraviglia che è,  e la sua salvezza  non può che essere quella dell’idea di Venezia come città. Ed è appunto questo modello di città  il suo valore attivo, la sua bellezza.  E ciò vale anche considerando Venezia come città conclusa  - la città museo - che comunque pone la necessità di affrontare la problematica complessa dei materiali necessari,  per avere competenze scientifiche e maestranze in materia di idraulica, di comportamenti dei materiali costruttivi e manutenzione nell’acqua salmastra, del problema dello spostamento di cose e persone, e  di tutto l’apparato necessario per sostenere una città-museo per farla funzionare, stare in piedi ed essere città proprio perché è bellezza, un valore attivo, storia e non solo metafora.

Considerare Venezia come un dato della storia, un modello di città che ha in sé le grandi implicazioni del suo ruolo storico, della sua bellezza come dato del presente, riporta al gesto del cardinale Bessarione che consegna a Venezia la sua biblioteca, la conoscenza del passato fatta libro e il senso della funzione di Roma. Mi piacerebbe molto che questo fosse il destino di Venezia e non solo per la città, ma per il mondo.