Intervento di Stefano Cecchetto

Un sistema di gallerie e mostre collettive in città

C’è un aspetto che mi ha sempre incuriosito di Venezia: Venezia è una città che vive di un tempo immobile e un tempo dinamico, solo che questi due tempi vanno in binari paralleli ma non si incrociano perché a mio avviso manca quel tempo fluido che li interseca l’uno nell’altro e fluisce l’immobilismo nel dinamismo e il dinamismo nell’immobilismo. Ci sono però due punti fermi dell'arte in questa città che resistono assolutamente alle intemperie del mondo: la Biennale, nata nel 1895 e la Fondazione Bevilacqua La Masa del 1898.

Questi due casi sono forse l’esempio più significativo che invece questi due tempi confluivano insieme, nel senso che la Biennale guardava alla Bevilacqua e la Bevilacqua guardava alla Biennale, quindi gli artisti si muovevano nei due diversi sensi. Comuni a tutti erano le gallerie, una rete di gallerie in città che recepiva questi movimenti, nel senso che gli artisti avevano poi una vetrina, chiamiamola così, culturale-commerciale per potersi confrontare. L’artista fa un mestiere e quindi deve vendere i quadri, non è così scandaloso. Parlando con un curatore cinese l’altro giorno lui mi diceva ‘La cosa che non riesco a capire di voi italiani è come per voi la cultura sia sempre una spesa e mai una risorsa. Voi avete quasi una vergogna di dire faccio un’opera e poi la vendo, e invece è il suo fine naturale’.

Questa rete di gallerie a Venezia era molto ampia; nel secondo dopoguerra, dal ’46 fino alla fine degli anni ’70 e ai primi anni ‘80 c’erano molte gallerie – ne nomino qualcuna: l’Arcobaleno, la Piccola galleria, la galleria Sandri, l’Arco, senza parlare poi delle gallerie più significative, il Cavallino, il Traghetto di Gianni De Marco e la galleria Santo Stefano di Uccia Zamberlan. Queste tre ultime gallerie erano anche tre poli di attrazione, nel senso che c’erano delle vere e proprie compagini di artisti che si muovevano dichiaratamente in questi contesti; gli artisti del Cavallino non andavano al Traghetto e viceversa, e gli artisti della Santo Stefano erano un mondo a sé stante perché la galleria trattava poco le avanguardie ed era più concentrata verso il figurativo e ora questo linguaggio pittorico sta tornando anche tra i giovani artisti della Bevilacqua.

In tutto questo manca ancora la figura centrale, cioè la visibilità più grande che questi artisti avevano era durante le mostre collettive della Bevilacqua, e gli acquisti venivano poi esposti a Ca’ Pesaro. Adesso Ca’ Pesaro sta diventando un ibrido, qualcosa che non riusciamo a decifrare perché c’è dentro di tutto senza avere un’identità precisa. Il museo di Ca’ Pesaro, nato come vetrina dell’arte veneta con gli acquisti alle Biennali nei primi anni del ‘900, fino a poi agli acquisti alla Bevilacqua era proprio il punto di riferimento dove andavi a vedere cosa produceva l’arte veneta di quel periodo o anche l’arte internazionale con gli acquisti alla Biennale. Recentemente per la Bevilacqua ho curato una mostra che raccontava la storia degli ateliers, degli studi della Bevilacqua asseganti agli artisti , per la mostra ho scelto il periodo che va dal 1901 fino agli anni ’60 e per cercare le opere da esporre in mostra, sono dovuto andare nei depositi al Vega perché a Ca’ Pesaro non ce n’era più neanche una. Questo fa capire che la città sta sempre più perdendo la propria identità per cercare un’identità altra che non riesce ancora a trovare e definire perfettamente.

Il Museo del Paesaggio, a Torre di Mosto, di cui sono direttore artistico, sta facendo in qualche modo un lavoro importante su questo recupero, tra la memoria e la contemporaneità, perché ogni anno noi dedichiamo una mostra che si intitola ‘Dialoghi veneziani’, dove mettiamo insieme tre o quattro artisti della generazione del dopoguerra fino agli anni ‘70/’80 e mostriamo quali possono essere i linguaggi e gli intrecci di questi linguaggi tra di loro; la promiscuità che gli artisti avevano, cioè questo guardarsi tra di loro e in qualche modo farsi anche partecipi, non dico copiando, ma rifacendosi allo stile dei colleghi, diventava un modo fluido di corrispondenza tra loro. Quello che manca adesso tra gli artisti contemporanei è forse il dialogo, mi sembra un ambiente un po’ troppo chiuso, si chiudono in se stessi e non guardano i colleghi, c’è proprio un universo che finisce dentro se stessi e non comunica con gli altri.

Questo è un po’ quello che cerchiamo di non fare al Museo del Paesaggio, cioè portando artisti che dialoghino tra di loro, che si guardino, che si leggano e che si confrontano, perché credo che il dialogo sia la cosa più importante per poter andare avanti; una struttura anche quando resta chiusa diventa abbastanza ibrida e non comunica niente neanche a se stessi. L’intervento che mi ha preceduto ha detto una cosa importantissima: l’arte deve trasmettere un’emozione, se non trasmette un’emozione è in qualche modo costruita, falsata dalla tecnica, dal linguaggio e da qualsiasi altra cosa voglia apparire piuttosto che essere.

Questo è quanto ci proponiamo di fare; artisti contemporanei giovani ce ne sono, molti e bravi; proprio tre giorni fa ero in commissione alla Bevilacqua per l’assegnazione degli studi ai nuovi artisti che entreranno per il prossimo anno, e stato veramente arduo sfogliare cento portfolio di artisti, dove la qualità devo dire era quasi tutta allo stesso livello, e assegnare solo quattordici studi, ce ne sarebbero voluti almeno altrettanti per poter soddisfare la qualità delle proposte arrivate. Quindi la potenzialità umana c’è, gli artisti ci sono – io uso più facilmente il termine artisti contemporanei, non mi piace tanto il termine arte contemporanea perché trovo che magari un artista degli anni ’40 o ’50 certe volte è più moderno di un artista di adesso che fa alcune cose che ha già visto precedentemente, quindi preferisco il termine artisti contemporanei perché sono contestualizzati nel momento in cui vivono, però tra tutto questo il metro di misura più diretto e più immediato è proprio quello dell’emozione, cioè se un artista riesce a emozionarti vuol dire che ha raggiunto il suo grado di preparazione e che è pronto ad andare in galleria e a confrontarsi con il mondo dell’arte. Grazie